Mali – Indietro nel tempo

Mali

Indietro nel tempo

L’occhio dello straniero vede solo ciò che già conosce. (Proverbio africano)

mali-endetoguTESTO

 

Sono tornata con poche emozioni e non me lo spiego. Strano vero? Non soffro di mal d’Africa. L’India sì, mi aveva steso. Tutto sommato, al di là della stanchezza ormai cronica, delle punture di animalini vari trascinate infette a casa per alcune settimane, dei bagagli che ancora non sono arrivati tutti, della malaria che ha trasferito direttamente dall’aeroporto all’ospedale due compagni di viaggio in preda a febbri allucinanti… al di là di questo, sento di avere poco da raccontare. Tornata e non essere mai partita mi pare un tutt’uno. L’Africa non mi accompagna nel profondo. O forse non è ancora venuta fuori. O forse non la voglio fare uscire. Solo rifletto un po’ di più e mi faccio più domande alle quali non so dare che poche risposte.

La strada è terra rossa, disconnessa. Agosto non è certamente il mese migliore per un trekking in Mali, siamo nel pieno della stagione delle piogge. Il problema grosso non sta tanto nella temperatura, caldo umido comunque ma non insopportabile, quanto nelle travolgenti precipitazioni precedute da brevi bufere di sabbia e venti forti. Arrivano senza alcun preavviso soprattutto di sera o la notte. Le tende vengono spazzate via con tutto ciò che sta attorno. Quando succede manca materialmente il tempo per mettere al riparo zaini, attrezzature, noi stessi.
A Ségou Koro. Antica moschea in banko – fango, paglia di riso e burro di karité -, edifici in stile bambara. L’impatto è forte, povertà e malattia si vedono subito. Tantissimi i bambini, molte le malformazioni alle gambe. Il giovane che ci accompagna ha sei dita a mani e piedi.
A Ségou passeggio lungo il Niger. Grande fiume! Nasce sui rilievi della Guinea relativamente vicino all’oceano ma non si rassegna a finire subito, così decide di allungare la sua storia, di portare vita. Sale a nord-est, attraversa il Mali fino quasi a toccare il Sahara poi piega a sud-est, scorre in Niger, Nigeria e finalmente eccolo arrivare all’Atlantico. Dopo oltre 4 mila e cento chilometri.
Belle danze di donne ad una festa di matrimonio. Uno spettacolo la bimba con la sorellina appesa dietro.
Cena all’aperto fra repellenti e zampironi che non allontanano le zanzare feroci.
E’ afoso, ma non più che da noi in questi giorni. Ma da noi questo caldo sarà da ricordare.
Sveglia al canto del gallo e del somaro.
La strada per Djenné è asfalto, fra pozze d’acqua ed erba verdissima, campi coltivati e bimbi colorati, capre, donne cariche in testa, capanne di fango, qualche bicicletta, buoi, carretti e muli, enormi termitai, nuvole nere, fango rosso. Temporale. La gente cambia. Pochi bambara ma fulani e bozo.
Djenné sta su un’isola sul fiume Bani, collegata da una chiatta-traghetto che trasporta mezzi e persone. Aspetto una buona mezz’ora per l’imbarco ed è piacevole osservare il via vai del posto, gli ambulanti, le mamme con i loro fagottini sulla schiena. Sfortunatamente piove e fa pure un po’ freddino.
L’attesissima moschea di Djenné era nella mia mente da tempo. Classico esempio di architettura in stile Sahel è la più grande costruzione in fango al mondo, dichiarata Patrimonio Mondiale dell’Umanità dall’UNESCO. Certo è che dopo le piogge ogni anno tende a sciogliersi, va un filino risistemata e per questo 4 mila volontari si mettono al lavoro. Noi, non musulmani, purtroppo possiamo ammirarla solo dall’esterno. La Grande Mosquée fa da sfondo ad un mercato non molto affollato oggi, che visito in un gran pantano fra puzze inverosimili e profumi di spezie nascoste. Mohamed ha 13 anni e ci fa da guida assieme ad un giovane più maturo. Una ‘guida’ la si deve avere comunque, non è possibile evitarlo e di certo aiuta a sopravvivere fra accalappiatori di turisti e labirinti di vicoli resi scivolosissimi dalle recenti piogge.
Nella casa-laboratorio di Pama Sinatoa trovo stoffe bogolan molto belle, le ‘stoffe di fango’, e diversi prodotti del suo famoso artigianato. I prezzi sono un po’ più alti che altrove.
Stamani è sereno e ritorno alla moschea. Ha quasi più fascino così, da sola con qualche capretta.
Una piroga ci porta a due interessanti, semplici e tranquilli villaggi fulani, Roundessirou e Welingare. Prima di andarcene rendiamo visita al capo villaggio.
Un amico regala a Mohamed una maglietta bianco splendente. Il ragazzino è raggiante. Il sole è fortissimo.
A Mopti il bell’albergo in realtà è sporco e maleodorante. Dal cortile si raggiungono le camere attraverso un corridoio. Dobbiamo coprirci testa e spalle per farlo perché è una cascata continua di insetti e scarafaggi, morti. Il pavimento è nero. Sono cotta.
Questa notte sento il primo temporale, sono al coperto ma comunque fa impressione. E’ un suono forte che si avvicina, un tuono sordo e continuo. Arriva in pochi minuti con una furiosa tempesta di sabbia e raffiche di vento, poi acqua a non finire.
Vento, lo spirito, il respiro.
Acqua, la vita, l’uomo.
In natura sono due forze indomabili che plasmano, scavano, modificano.
In pinasse lungo il Niger ai villaggi peul e malenké di Nimitongo e Tongorongo. Caldo bestia. Il paesaggio è abbastanza monotono, poca vita sul fiume. Al villaggio bozo diKotaka gli abitanti sono pescatori e abilissimi costruttori di piroghe. Usano affumicare il pesce per conservarlo nel tempo.
Non ho fame, sono spompata. Bella la luce del tramonto sul porto.
In camera non si respira, il puzzo è terribile, come essere in una colonia di foche.
Incontro Adama, la guida dogon, gran bel ragazzo ben preparato. Trascorriamo con lui un paio d’ore a Taikiri, la città vecchia. I somonò erano pescatori e fondarono Mopti. Poi arrivarono i bozo e i peul, e seguirono etnie diverse.

Nella terra dei Dogon. La Falaise de Bandiagara si allunga per 150 chilometri attraverso il Sahel fino quasi a toccare Mopti. E’ una enorme scarpata, una parete verticale alta parecchie centinaia di metri, una volta abitata dal popolo tellem. Ancora si vedono le loro abitazioni, granai e grotte poste in luoghi per noi oggi assolutamente irraggiungibili. Che sapessero volare?
A Bandiagara compero due chili di noci di cola. Masticate a lungo rilasciano sostanze blandamente eccitanti, allucinogene, forse. Le offriremo ai capi dei villaggi che ci ospiteranno e all’hogon, grande guida spirituale del popolo dogon. In effetti poi tutti ce le chiederanno, anche le donne che da sempre lavorano duro.
La pioggia in questi giorni ha allagato e reso impraticabili diverse zone così le nostre camminate saranno più brevi del previsto. Dal nulla si materializzano portatori che velocissimi si caricano in testa i nostri bagagli per scomparire nuovamente lungo il sentiero davanti a noi. Fra di loro una ragazza incinta, infradito ai piedi, grande disagio…
Il posto è straordinario ed in mezz’ora giungiamo a Begnimato. Quattro passi per il villaggio, poi alle cascate per un bagno rinfrescante e deodorante. Montiamo le tende in tempo per capire cosa significhi trovarsi qua alle prese con un temporale africano estivo. Giù tutto il più velocemente possibile, sabbia negli occhi, graffi sulla pelle, ci ripariamo in una capanna assieme al risotto alla parmigiana che aveva appena cominciato a bollire in pentola. Un’ora così poi tutto torna normale. Rimontiamo le tende e finiamo di cuocere (!) la cena che Adama assaggia e cortesemente rifiuta.
Per tutta la notte sentirò i preparativi per le danze di domani. Ancora minaccia temporale.
In marcia attraverso corsi d’acqua.
Al villaggio di YabaTalu bellissime porte di legno scolpito chiudono granai e capanne.
Lontano un suono primordiale, basso, regolare, un battito di cuore. Credo di seguire il ritmo di un tamburo e trovo invece una donna e la sua piccola che battono il frumento in un mortaio. Gli uomini intrecciano ceste. Le mosche non danno tregua. All’aperto, nascosto da pareti di fango, il cesso è un buco coperto da un coccio rovesciato, nero di mosche che dannate ti si infilano dappertutto. Metto tenda e bagagli ad asciugare al sole e passo un pomeriggio di relax, faccio per dire.
Qui la gente è deliziosa. Guindo mi mostra orgoglioso alcune sue vecchie fotografie e indica un ragazzino, bellissimo neonato in quelle foto. Gliene faccio altre con la promessa poi mantenuta di spedirgliele non appena saranno pronte. Ma prima vuole cambiarsi e va ad indossare il vestito della festa.
Per la notte mi sistemo in una capannina dalla bella porta scolpita. Dentro si soffoca e dormirò niente.
Cinque bimbetti seduti sopra un sasso ci guardano mentre facciamo colazione. Mosche a migliaia. Uno sguardo al villaggio. Vicino al togu-na c’è un nimne, l’albero nazionale del Mali. Il suo colore riporta alla bandiera del paese dove il verde è proprio il suo, giallo è il deserto, rosso il sangue.
Il toguna è l’edificio più importante per la vita della comunità del villaggio dogon e sorge in posizione dominante o sullo spiazzo principale. E’ una tettoia rettangolare che ospita le riunioni ed il consiglio degli uomini, una costruzione bassa – si dovrà discutere pacatamente quindi nessuna possibilità di alzarsi ritti – sostenuta da pilastri. Ripara dal sole e crea nel contempo un ambiente ventilato. Strati vegetali compatti e sovrapposti, generalmente steli di miglio, la ricoprono. I pilastri di legno sono spesso scolpiti con figure antropomorfiche, miticamente legate agli antenati.
Endé è una esposizione d’arte all’aperto fra negozi di artigiani, sculture in legno e tessuti dipinti con i colori caldi della terra, appesi fuori sui muri delle case. Magnifici i pilastri del suo toguna.
Lungo la via uomini arrotolano fibre di corteccia di baobab per farne corde. Altri hanno già in mano fili di plastica.
Dall’hogon del villaggio, il ‘cordone ombelicale’, la via d’unione fra terra e cielo. Vive isolato, non può confondersi con l’altra gente. Saliamo fino ai vecchi granai sulle rocce della falesia, dove risiede in perfetta solitudine. Pare aspettarci avvolto in una veste blu, seduto in un antro dalle pareti disegnate. Portiamo noci di cola, zucchero e qualche soldo. Non ci rivolgiamo direttamente a lui ma poniamo le nostre domande al suo custode, kadana, che fa da tramite. Siamo tutti un po’ curiosi ma non trattiamo argomenti importanti, nessuno di noi in fondo è un gran conoscitore della religione dogon. “Qualsiasi cosa buona contenuta nei vostri cuori potrà realizzarsi presto, sarà un figlio, un matrimonio, un amore”. E se lo dice lui ci devo credere un po’ di più. Speranze e sogni, sempre e ovunque.
Scatto alcune fotografie. Bel panorama su Endé e la pianura sottostante.
Stravolta mi ritiro per la notte al riparo di una tettoia. Monto la zanzariera, mi rilasso sulla stuoia ed ecco arrivare il rombo del tuono lontano. Sono ancora a mollo.
In cammino ai piedi della falesia fra campi di miglio, verso Teli dove ci attendono i nostri autisti. E via di nuovo nel poverissimo Burkina Faso.

Questa Africa è fatica. La fame è ovunque, i bimbi hanno pance gonfie così, vestiti stracciati, ernie ombelicali che cascano fuori, occhioni neri che guardano in basso senza chiedere niente. Che prelibatezza allora i vermi fritti, quelli che a noi facevano un po’ schifo, magari poterli avere…!

 

Letture consigliate:

– Architettura Primitiva, di Enrico Guidoni, Electa
– Diario Dogon, di Marco Aime, Bollati Boringhieri
– Dio d’acqua, di Marcel Griaule
Le radici nella sabbia, di Marco Aime, EDT
– Niger e Mali, Mauritania, Burkina Faso, lonely planet, EDT
Viaggio a TIMBUCTU, di René Caillié, CIERRE edizioni

 

di Francesca Chiolerio  –  ottobre 2003


Chi sei? 

E tu, chi sei?
   Sono Mamadi, figlio di Diubaté.
   Da dove vieni?
   Dal mio villaggio.
   E dove vai?
   All’altro villaggio.
   Quale altro villaggio?
   Cosa importa?
   Vado dovunque ci siano degli uomini.

Che fai nella vita?

Sono griot, capisci?
   Sono griot, com’era mio padre,
   Com’era il padre di mio padre,
   Come lo saranno i miei figli
   E i figli dei miei figli.

Sono griot, mi capisci?
   Sono griot come al tempo dei padri
   Che aprivano il cuore al nascere del giorno
   E la casa ospitale al viandante sconosciuto
   Attardato sulla via.

Sono progenie di Dieli,
   L’uomo cui suo fratello diede
   La propria carne e il sangue
   Per eludere la fame terribile
   Pronta sul sentiero in fiamme della foresta
   Con la maschera minacciosa del teschio della morte.

Sono figlio della Guinea,
   Sono figlio del Mali,
   Nasco dal Ciad o dal profondo Benin.
   Sono figlio dell’Africa…
   Addosso ho un gran-bubù bianco.
   E i Bianchi ridono vedendomi
   Trottare a piedi nudi nella polvere della strada.

Ridono.
   Ridano pure.
   Quanto a me, batto le mani e il grande sole dell’Africa
   Si ferma sullo Zenit per guardarmi e ascoltare.
   E canto e danzo,
   E canto e danzo.

Francis Bebey