India – Oh! Calcutta!

India

Oh! Calcutta!

Se hai due pezzi di pane, danne uno ai poveri, vendi l’altro, e compra dei giacinti per nutrire la tua anima. (Poesia indù)

kolka-rossTESTO

Straordinaria Calcutta. Senza tempo e fuori dal tempo, è roba forte che lascia il segno.
Dodici milioni gli abitanti registrati, ma la realtà è forse più vicina ai quindici. Ed è tutto un problema, il clima, l’inquinamento, la sovrappopolazione, la povertà, la burocrazia…

Uomini cavallo. A Calcutta ci sono ed è l’unico posto al mondo dove li puoi trovare, dove li trovi veri. Ne vedo a decine adesso. Non c’è ombra di sorriso ma nemmeno amarezza. Sono lì, avvolti in una sciarpa la sera e la mattina. Un campanello fra le dita e la stanga. Orgoglio e fierezza, necessità, dovere e serenità. I più, seduti sul loro carretto ad aspettare il cliente. Altri più fortunati lo hanno già caricato. Quasi tutti a piedi nudi. Ma a differenza dei cavalli loro non hanno ferri ai piedi.
Tanto tempo fa… qua siamo davvero a tanto tempo fa. Quanti anni nel passato non lo so dire, ma noi siamo solo stonature. Fare niente o salire sul carretto e dar loro di che vivere? Mi sento male in ogni modo.

Con i miei amici alloggio in una traversa di Sudder Street, nel cuore povero di Calcutta. Uno di loro mi sta sventolando  proprio adesso, da lontano, una bottiglia di rum appena acquistata. Rum indiano. Da noi farebbe schifo ma qui è proprio buono! Il New Market è un enorme bazar nel cuore della città, a due passi dal nostro albergo. Un’esplosione di colori. Tutti i sensi sono all’erta, ma l’olfatto è il più felice. Spezie. Le trovo tutte e tutte assieme. Chiudo gli occhi e seguo la traccia… In effetti c’e anche l’odoraccio delle macellerie ma giro alla larga. Poi essenze di gelsomino, rosa, sandalo ed incenso. Anche fra la frutta accendono i bastoncini, quelli grossi come un sigaro. Già comperato un libro di cucina indiana. Spezie e vegetali, the best. Preso anche lenticchie gialle per il dal.

Domani farò ancora la turista. Indian Museum, Howrah Bridge, Maidan, Victoria Memorial, St. Paul Cathedral, Kali Temple, Botanical Gardens, Tagore House. Qualsiasi guida li racconta. Poi vorrei passare qualche giorno a Shishu Bhavan, la casa dei bambini abbandonati, orfani, nati prematuri, denutriti. E a Prem Dan, l’altra Kalighat, con malati gravi e con gravi handicap, fisici e mentali.
Penso che tutto si sovrappone e si fonde. Il medioevo, i cumuli di spazzatura con i corvi per le strade, i cani rognosi che si mordono a sangue. La povertà vera, quella che noi non siamo in grado nemmeno di capire. Le caprette sacrificate oggi al tempio della dea Kali affinché la sua ira si possa placare. L’internet café, la voglia di restare, la voglia di tornare…

Nirmal Hriday, Kalighat, è stato il primo ricovero aperto da Madre Teresa, per malati e moribondi. Attigua al grande tempio di Kali, era una vecchia casa per pellegrini indù che l’amministrazione comunale le mise a disposizione fin dal 1952.
Il 15 febbraio 1953 nasce “La casa dei bambini”. Primo ospite un prematuro trovato su di un marciapiede avvolto in carta di giornale. Poi ne arriveranno altri, tutti da sfamare. Come fare? “Il Signore provvederà” rispose Madre Teresa col suo sorriso.
Cinquanta anni dopo, oggi. A Shishu Bhavan un centinaio di bimbi attorno ai due anni sono in attesa di adozione. Altri cento sono i neonati ed una quarantina i bimbi con handicap. Una famiglia povera può decidere di abbandonare la femmina perché avrà bisogno di una buona dote il giorno del matrimonio, mai il maschio. I maschietti vengono lasciati solo e sempre dolorosamente da mamme rimaste vedove e non più in grado di mantenerli. Oppure nascono direttamente qui, da ragazze che fin da subito decidono di non prendersene cura. I bimbi handicappati invece sono abbandonati perché i figli si vogliono perfetti. Perfetti perché nella povertà un bimbo disabile è un grande problema, un costo insostenibile e mai potrà aiutare la sua famiglia. Lo racconta una signora irlandese, volontaria a Shishu Bhavan da mesi ormai.
I bambini adottabili hanno già quasi tutti una famiglia che aspetta solo di portarseli via. Intanto per loro è normale vivere così, assieme in uno stanzone enorme con tutti i lettini vicini. Sono facilmente adottabili dall’Italia, Svizzera, Spagna, Belgio e India naturalmente. Le coppie indiane scelgono in prevalenza maschi. I nuovi genitori vedono il loro piccolo solo in fotografia. A carte fatte arrivano e si fermano per conoscerlo e vivere un po’ con lui, una settimana o poco meno, poi ripartono assieme. Uno schiaffo per un bimbetto non più piccolissimo: nuove facce, nuova lingua, nuovo clima, nuovo tutto. Come cambiare pianeta.
Maschi e femmine assieme. Ogni mattina a gruppetti le donne dell’istituto li lavano con un tovagliolo di spugna, sopra e sotto. Un massaggio con olio di senape a braccia e gambe, poi sui capelli che diventano lucidissimi. Li pettinano. Col dito mettono la tica nera e bianca sulla fronte, fra le sopracciglia. Kajal a sottolineare gli occhi delle bimbe. Su le braghette e giù un misurino di vitamina che deve essere proprio buona perché tutti corrono, non vedono l’ora di averla. Sono bellissimi e vispi come grilli. Ti si aggrappano, forse pensano che li porterai via, o forse hanno solo bisogno di contatto fisico. Rokindro non mi abbandona più, nemmeno per un secondo mi lascia la mano, si stringe addosso, vuole farsi portare in braccio. E’ amore a prima vista. Poi fuori in cortile a giocare, a piedi nudi. Come in un asilo dei nostri, ci sono gli scivoli, le giostre, le altalene, i tricicli. Cose molto vecchie, ma va bene così. Le bimbe in un attimo fanno mercato. I bimbi se ne stanno più in disparte, ma riconosci subito il leader, il prepotente, il remissivo. Poi mezzo bicchiere di latte tiepido pescato da un secchio di acciaio, un biscotto salato, una caramella. Alle 11:00 c’è il pranzo, un abbondantissimo piatto di riso e dal. Chi lo sbaffa in un secondo, chi ne sputa mezzo. Giù le braghe. Tutti sui vasetti nella stanza accanto. Un’esagerazione di vasi di plastica rossi, verdi e blu. Vasi che volano, chi ci mette le mani dentro mentre la fa, chi urla perché non vuole… Poi immagino un’altra sciacquata sopra e sotto, poi a nanna. Perché a quel punto ci hanno detto grazie, il vostro compito è finito, arrivederci. L’impressione prima è che qui non ci sia tanto bisogno di noi. Domani voglio riprovarci.
Il mio bellissimo Rokindro oggi è ammalato. Nero nero, con due occhi grandi così, piange, allunga le braccia e mi indica il sole oltre la finestra spalancata…

Questa sera, tornando all’albergo da una vietta secondaria, ho visto un mucchio di spazzatura muoversi, quasi sollevarsi e prendere vita. Erano topi che entravano ed uscivano in cerca di cibo. Sono grandi come gatti e si affacciano ovunque a sgranocchiare riso abbandonato davanti ai loro buchi. Sono persino belli e non fanno scappare nessuno, sono parte della vita qui.

A Prem Dan dai malati è tutt’altra cosa. Ieri vedevo la vita all’inizio. Oggi è alla fine.
Da semplice spettatore vorrei mostrare le immagini senza commenti.
Rimanere in disparte in silenzio.
Fermarmi a pensare.
Lavare i panni a mano, stenderli, pulire i poveri incontinenti, medicarli, imboccarli e ripulirli, lavare piatti e pentole. Questo e altro c’è da fare. Sono arrivata già un po’ preparata, avevo visto la vita fuori, quella veramente povera degli slam, dove la gente campa e dorme nelle baracche fra la spazzatura e non ha niente. Avevo già immaginato un ricovero povero per ammalati poveri. Le suore sono giovani, sanno ridere e scherzare. Se non parlano inglese, con cenni ti indicano cosa fare. Ma difficile è capire come farlo e perché sei lì. Nell’aspetto esteriore potrebbe anche essere un’anticamera per l’inferno. L’amore lo vedi dopo. Sono spaesata, non so come muovermi in una buia camerata con più di quaranta letti, l’uno vicino all’altro. Tutti di ferro, un materasso leggero rivestito di plastica, un lenzuolino a quadretti bianchi e rossi o blu, nient’altro. Le finestre sono spalancate, i fan accesi. E tante povere donne che non hanno niente, ma proprio niente se non chi le assiste. Anche le camiciole che indossano, uniche cose a coprirle, sono stracci. Non solo leggeri, sono proprio rotti. Noi non li vorremmo neanche per i pavimenti.
Il pasto quotidiano arriva in due marmittoni di acciaio. Patate e piselli in umido con riso bollito. Il grosso cucchiaio che li servirà traccia veloce una croce. Una preghiera. Anche piatti e tazzine per l’acqua sono in acciaio. Chi può si arrangia da sola e mangia a letto. Alla maniera indiana non servono posate. E’ la sola mano destra che mischia il cibo nel piatto e lo porta alla bocca. Poi viene sciacquata con l’acqua avanzata nella tazza. Chi ha bisogno sarà imboccata. A volte sono loro stesse a chiedertelo, a spiegarti come fare perché c’è chi non si solleva più dal materasso. Il riso schizza lontano o sotto il letto. Non c’è niente per asciugarsi, per pulirsi. I bisogni primari si ritrovano tutti insieme, nello stesso momento nanna, pappa, cacca. Le donne vengono medicate, massaggiate con olio di cocco, creme idratanti, pettinate. La musica è molto forte anche qui oggi. Le più stanche dormono, altre tentano di ballare, battono le mani, mani storte, rovinate per sempre. Niente e amore. C’è pulizia. In questa stagione il clima aiuta, fa caldo e una secchiata d’acqua sul pavimento lava via tutto e tutto si asciuga in fretta.
Una giovane con i capelli rasati è legata con una catena di ferro per una caviglia alla sbarra della finestra. Sono senza parole, perché? Magrissima e minuta, è seduta sul metallo del suo letto senza materasso. Se la fa addosso. Mentre la portano a pulire in una stanzetta attigua si stringe contro il vestito bagnato. Ritorna nello stesso modo. Le cambiano la camiciola e la sistemano come prima. Si mette in piedi sul ripiano di ferro, si attacca con le mani alle sbarre della finestra, guarda lontano e balla. Qualcuno le si avvicina e si ferma con lei, la abbraccia a lungo.
Una donna sta molto male. Dice di sentire male al cuore e alle braccia. Non ci sono medici. Si lamenta, capisce bene e piange.
Ranu ha poco più di 23 anni e vive qua. Distrofia muscolare. Non può fare niente da sola, non ha più nemmeno l’uso delle mani. Eppure ride, ringrazia e canta. Dalla sedia di plastica rossa alla branda di metallo, spostata di peso. Cosa passa per una testa normale quando ogni momento dell’esistenza è così?
Mongiu parla un inglese pulito. E’ una bella ragazza e si sta riprendendo. Forse lei ce la farà.
Penso: posso lavare i panni, portarli su a fagotto per i tre piani fino alle terrazze e stenderli. Posso pulire i cessi, scale e pavimenti. Pelar patate o aiutare in cucina. Ma che ci faccio con le malate? Guardo le altre muoversi fra creme e massaggi, oli e pettini, padelle. Sapere cosa fare… ma un giorno non basta.
Le donne ti chiamano e parlano e il più delle volte le loro parole non hanno significato. Però se non lo sai, se cerchi di capire e non ci riesci, che impotenza, che disperazione. Io poi non sono abituata al contatto fisico così non mi viene facile accarezzare, prendere una mano, dare un bacio. Guardo chi lo fa ed in effetti basta quello. Con il tempo poi si impara.
Stendo il bucato sul terrazzo e guardo quei poveri stracci ancora sporchi nonostante i lavaggi. Ma i lavaggi sono fatti a mano e dov’era il bianco adesso non lo sai. Poco cotone, molto sintetico che fa sudare. E’ tutto rotto, buchi grandi. Qui la roba non la si butta, si consuma. Qui manca tutto.
Esco dallo stanzone ed una donna anziana immobile a letto mi prende la mano e mi dice mille volte grazie. Per che cosa, le chiedo? Per quello che fate! Ho già il magone dopo solo due mezze giornate…
Ancora tuoni. Ha piovuto tanto e l’aria è quasi fresca.

Certo, non c’è bisogno di andare in India per trovare Calcutta. Basta saper guardare per trovarla dietro casa. E cosa rispondere a chi mi chiede com’è, se ne è valsa la pena, a cosa è servito? Non è facile raccontarlo, per niente. Troppe perplessità, troppi i perché. Le mie risposte di certo non bastano. Alle conclusioni poi, nel bene e nel male, ci si arriva sempre molto facilmente. Forse Lorenzo…
“Tornava di nuovo l’unica soluzione. Non risolvere i problemi, ma condividerli, esserci, attenuare almeno la solitudine; e questo era esattamente quello che avrei fatto. … Qualsiasi cosa potessi fare mi sembrava perfettamente inutile finché leggendo un libro di Ghandi trovai questa frase: Non ti preoccupare, agisci e non cercare il risultato delle tue azioni. … Ecco la risposta, bastava fidarsi!”
Lorenzo Calamai è di Firenze e dedica buona parte della sua vita ai malati di Prem Dan. Da dire che ha lasciato in Italia un bellissimo lavoro nell’agriturismo di famiglia in Maremma. Quello che tanti di noi hanno come sogno nel cassetto. Le sue testimonianze sono raccolte in “Stracci Leggeri” … pagine che colpiscono come un pugno nello stomaco e accarezzano come la brezza dopo il passaggio dei monsoni

Ascolto tuoni lontani, il tac tac dell’acqua che cade ancora a grosse gocce su lamiere e plastiche qua fuori. Chi vive sulla strada ha steso teli fra muro e marciapiede, mattoni e sassi a fermarne il lato sotto.
Scatto due fotografie alla nostra camera. Il fastidio allo stomaco va e viene, ancora non mi passa. Però, quasi quasi un po’ di riso bianco… mi sta tornando fame.

 

Letture consigliate:

– La Città della Gioia, di Dominique Lapierre, Bestsellers Oscar Mondadori
– Calcutta, di Geoffrey Moorhouse, Phoenix
– Stracci Leggeri, di Lorenzo Calamai, Edizioni della Meridiana
– Oltre la paura, di Lorenzo Calamai, Edizioni della Meridiana
– Come fiori di loto, di Fabio Vozzo, Edizioni della Meridiana

 

Presentazione dei libri di Lorenzo e Fabio a Como, 21 gennaio 2006  frecce003-ds

 

E per finire, giusto una curiosità. Secondo Kenneth Tynan “Oh! Calcutta!” non c’entra niente con il varietà che porta il suo nome. E’ piuttosto il titolo di un dipinto del surrealista francese Clovis Trouille. Un gioco di parole su “Oh! Quel Cu T’as” dal chiaro significato. Nel quadro infatti la modella esibisce al pittore il suo fondo schiena!

 

di Francesca Chiolerio  –  marzo 2003

Pubblicato su: Avventure nel Mondo – Semestral, Anno XXXI – n. 2 – Luglio-Dicembre 2004